Quando il calcio non è più un gioco: Luciano Re Cecconi il calciatore ucciso in gioielleria. Scherzo o fatalita?

La bandiera per Luciano Re Cecconi

La bandiera per Luciano Re Cecconi (foto dalla rete)

18 gennaio 1977, via Francesco Saverio Nitti, quartiere Collina Fleming, Roma. Nel silenzio si sente solamente il rumore di uno sparo proveniente dalla gioielleria di Bruno Tabocchini, dove Luciano Re Cecconi, insieme all’amico profumiere Giorgio Fraticcioli e al compagno di squadra Pietro Ghedin sono entrati. Re Cecconi, una volta dentro, ha alzato il bavero della giacca e scherzosamente ha detto “Questa è una rapina”. Il gioielliere, che aveva da poco subìto due furti, ha tolto la pistola dal cassetto e ha sparato un colpo, un colpo solo che ha preso Luciano, il quale cade a terra e muore in meno di mezzora. Questa è la versione ufficiale, quella che per anni abbiamo letto sui giornali e su internet, ma per i suoi compagni di squadra e per suo figlio le cose non andarono esattamente così.

Chi è Luciano Re Cecconi? Nasce a Nerviano l’1 dicembre 1948, è figlio di un muratore, e già da giovane inizia a lavorare come carrozziere insieme al cugino. Inizia a giocare a calcio per hobby, ma poi il suo talento di regista di centrocampo non rimane inosservato e dalla nativa Lombardia, dove esordisce in C1 con la Pro Patria, passa al Foggia, con cui conquista anche la serie A. Dopo tre stagioni in Puglia il tecnico Tommaso Maestrelli lo porta con lui alla Lazio, dove vince il primo scudetto della storia biancoceleste, nella stagione 73/74. Indimenticato per i tifosi laziali grazie al suo talento, ma molti al di fuori di Roma lo ricordano solo per la sua sventurata fine, non ancora del tutto chiara alla famiglia e ai suoi allora compagni di squadra.

Il profumiere Fraticcioli, che era con lui al momento della disgrazia, dichiarò al processo: “Io non ho sentito Re Cecconi pronunciare la frase è una rapina”, frase smentita da due testimoni su 4 presenti nel piccolo negozio. Il gioielliere stesso ha dichiarato in tribunale “Re Cecconi non ha fatto nulla che mi potesse far pensare ad una rapina”, ma la sentenza che arriva il 4 febbraio del 1977 assolve l’imputato Bruno Tabocchini dal reato di “eccesso colposo di legittima difesa”, perché secondo i giudici “ha sparato per legittima difesa putativa”. La sentenza è accolta con esultanza dalle associazioni di orafi e gioiellieri presenti in aula, per festeggiare una sentenza esemplare a difesa della loro categoria. Ma ha lasciato il resto del mondo con l’amaro in bocca.

Pino Wilson (Capitano Lazio 69-80) ha ancora impressi nella mente i ricordi di quel tragico 18 gennaio 1977: «Mi chiamò in ufficio l’allora segretario della Lazio, Fernando Bona, il quale mi mise al corrente di quello che era successo. Quando mi fecero vedere il corpo mi indicarono il foro del proiettile: era un foro piccolissimo, di una dimensione talmente minuscola che io non mi capacitavo di come quel forellino avesse potuto provocare la morte quasi istantanea di Luciano. I fatti? Non posso pensare che ci sia stato un movente che ha spinto il gioielliere a sparare o a puntare la pistola prima su Ghedin poi su Luciano. Io credo che si sia trattato di uno scherzo che non era di voga in quel periodo, perché ovviamente il contesto sociale parlava molto chiaramente, era un periodo in cui gli assalti delle gioiellerie erano all’ordine del giorno».


Luigi Martini (Terzino sinistro Lazio 71-79) oltre che un compagno di squadra era un grande amico di Luciano: «Quel giorno un amico comune mi corse incontro e mi disse “Hanno sparato a Re Cecconi” e io risposi “Ma come sparato a Re Cecconi, sei pazzo?” e lui ribadì “L’ambulanza l’ha appena portato al San Giacomo”. In ospedale incontrai Renato Ziaco che mi prese per un braccio e mi portò in camera operatoria da Luciano. Mi prese la mano e me la fece appoggiare dietro la schiena, vicino ad un rene, e mi disse “L’ha ammazzato questo”.

Sulla vicenda mi feci da subito l’idea che era impossibile che fosse stato uno scherzo, primo perché io lo conoscevo molto bene, eravamo veramente intimi, lui era da noi tutti soprannominato “il saggio”, proprio perché criticava i nostri atteggiamenti goliardici e diceva sempre cose sagge. Luciano era una personalità schiva, non avrebbe mai e poi mai organizzato uno scherzo, come ho letto da qualche parte, prima nel negozio del profumiere e poi in gioielleria, ma soprattutto non lo avrebbe mai improvvisato. Io sono fortemente convinto che la verità sia un’altra. Purtroppo è stato un destino crudele per Luciano, non tanto morire in un modo così insolito, ma essere descritto per quello che non è, e ritengo che questo per la memoria di un uomo sia veramente massacrante, soprattutto per i suoi familiari. Luciano Re Cecconi ha due figli stupendi che hanno il diritto di sapere come sono andate le cose veramente».

Un gioco suicida scrissero i giornali dell’epoca, ma andò veramente così? Il figlio Stefano Re Cecconi, che all’epoca aveva soltanto due anni e che per divertimento ora gioca a calcio, prova a dare una spiegazione ai tanti perché: «La mia idea è che papà si sia trovato al momento sbagliato nel posto sbagliato, ha incrociato una persona estremamente sbagliata, poco lucida, una persona dal grilletto facile come poi è stato testimoniato. Si trattò di tragedia, ma non di scherzo, non ho mai creduto in cuor mio nei fatti che mi sono sempre stati raccontati. Forse magari la gente pensa che lo difendo perché sono il figlio, però in questa storia c’è sempre stato qualcosa di poco chiaro, e forse l’unica persona che non c’era più non si poteva difendere fino in fondo. Il gioielliere? Questa persona sia a me che a mia sorella Francesca ha cambiato la vita, a me è mancata una figura, la sedia vuota ogni compleanno, ogni Natale.

Io però non ho mai cercato e non ho mai inseguito nessuno, ho lasciato sempre vivere le persone tranquillamente: spero però che ogni tanto la notte qualche tiratina di gambe o calcetto a qualcuno sia arrivato, perché credo che sia stata fatta una grossissima ingiustizia nei confronti di mio padre. È rimasto impresso il sacrificio di papà, quando da ragazzo lavorava in una carrozzeria e per arrivare agli allenamenti faceva tantissimi sacrifici, perché veniva da una realtà povera. Non ho mai voluto riaprire il caso, perché nessuno tanto mi riporterà indietro mio padre, sono passati tanti anni, non c’è da parte mia una forza nel voler riaprire il caso, ma quella di riabilitare la figura di un uomo che troppo velocemente è stato etichettato come un ingenuo e uno stupido, questo sì. Quello che per tutti è stato un grande calciatore era semplicemente il mio papà, quella bandiera bellissima che qualche settimana fa i tifosi della Curva Lazio hanno tirato fuori (nella foto) è stata emozionante per me, mi è scesa anche qualche lacrima, è l’esempio di quanto amore c’è nei tifosi».

Al funerale, svoltosi nella Chiesa dei SS Pietro e Paolo all’Eur, parteciparono 5000 persone. Ora Luciano riposa nella sua Nerviano, e con lui il segreto di come andarono veramente i fatti.

Lara Facchini