Bomber generoso e prolifico, ha costruito la sua carriera partendo da Catania e arrivando ai trionfi con Juve e Inter. A 20 anni campione d’Europa con gol in finale!
Il maestro Luciano De Crescenzo, nel film Così parlò Bellavista (1984), amava dire: “Si è sempre meridionali di qualcuno!” Nella sua semplicità, una frase geniale e che andrebbe inculcata con impeto nelle teste di molti italiani distratti… La distinzione purtroppo ci sarà sempre, anche quando in realtà non servirebbe. Un campione del calcio come Anastasi è perennemente ricordato come “il bomber venuto dalla Sicilia”, e fin da ragazzo ha vissuto sulla sua pelle le differenze del nostro stivale. Divenne un emblema e un simbolo dei giocatori del Sud, proprio perché riuscì a sfondare nelle formazioni del Nord: colonna portante della grande Juventus degli anni settanta, ma anche Varese e Inter.
Pietro Anastasi nacque a Catania il 7 aprile del 1948; crebbe calcisticamente in serie D nella Massimiana per poi ricevere la prima grossa occasione della sua vita nel Varese, appena diciottenne! C’era da trasferirsi al Nord, un’offerta affascinante e allettante che per il giovanissimo siciliano valeva doppio. La decisione di partire fu ponderata e sofferta, con rischi ed incognite dietro l’angolo pronte a distruggere i sogni di gloria… Per fortuna, nel centro lombardo Anastasi si ambientò benissimo, apprezzando la tranquillità dell’ambiente circostante e la stima che subito gli venne dimostrata. Pietruzzu vestì la gloriosa casacca del Varese per due stagioni, dal 1966 al 1968, una in serie B e una in A.
Anastasi era un centravanti mobilissimo, dotato di una tecnica forse non eccelsa ma, in compenso, possedeva due armi micidiali: la fulminea (e devastante per gli avversari) battuta a rete e la capacità di legare alla perfezione con i compagni di reparto. Quest’ultima era effettivamente una grande qualità; stabiliva, dando anche un esempio, un’intesa basata su una visione completa del gioco di squadra, una generosità scevra da inutili e stucchevoli personalismi. Le prime gioie in campo, i gol e le vittorie gli valsero la convocazione in Nazionale: mascotte di un gruppo pieno di campioni già affermati (Mazzola, Riva, Facchetti), Anastasi riuscì ad emergere e ad imporsi come uno dei nostri migliori attaccanti. Con l’Italia realizzò 8 reti in 25 partite, con la perla del 2-0 nella finalissima degli Europei del 10 giugno 1968 a Roma contro la Jugoslavia.
Tenuto d’occhio da tempo dai tecnici della Juventus, Anastasi venne ingaggiato dal club torinese proprio nel 1968. Ormai svezzato alle dure arene del calcio professionistico, visse coi bianconeri la parte fondamentale della sua carriera. In nove stagioni 302 presenze complessive fra campionato e Coppe, più di 90 gol, tre scudetti, una finale di Coppa dei Campioni e una di Coppa Uefa. Nel 1976, su idea di Boniperti, si materializzò un clamoroso scambio in sede di calciomercato: Boninsegna alla Juventus e Anastasi all’Inter! Probabilmente a guadagnarci furono i torinesi, anche se Pietro si confermò con i nerazzurri un professionista serio ed esemplare: con l’Inter disputò due campionati, vincendo anche la Coppa Italia nel 1978.
Successivamente fu ceduto all’Ascoli, dove ritrovava con gioia la tranquillità della città di provincia. Coi marchigiani diede il suo onesto contributo per tre anni, sfruttando la sua generosità e l’esperienza accumulata nel tempo. Anastasi chiuse la carriera professionistica nel 1981, giocando nel massimo campionato svizzero nelle fila del Lugano. Tentò pure un’esperienza oltreoceano partecipando a tornei di calcetto indoor negli Stati Uniti: per vari motivi, come un drastico decadimento fisico e la mancanza di stimoli, l’avventura fallì nel giro di pochi mesi. Poco male, Anastasi appese le scarpe al chiodo senza troppi rimorsi e tornò ad abitare a Varese.
Mesi dopo si dedicò ai corsi di Coverciano per diventare allenatore di terza e seconda categoria; i suoi primi approcci in panchina furono coi ragazzi delle giovanili di Varese, con cui si trovava a meraviglia. In Anastasi cresceva, infatti, un’insofferenza verso i vertici calcistici italiani, caratterizzati esclusivamente dal fascino dei soldi facili. Gli stessi atleti delle nuove generazioni dimostravano poco attaccamento alla maglia, prerogativa destinata addirittura ad aumentare col passare del tempo. Decise, infine, di defilarsi dagli ambienti troppo ovattati dedicandosi, seguendo una sua peculiare vena caratteriale, all’insegnamento. Ecco riaffiorare, quindi, l’affetto verso i giovanissimi: Pietro ha puntato tutto sulla comunicazione, facendo leva sulla sua sterminata e florida esperienza agonistica. Ha diretto scuole calcio per ragazzini fino ai dodici anni, sperando che le nuove leve crescano più romantiche e meno venali, cioè che non misurino le vere soddisfazioni della professione solo con la cifra raggiunta dal loro ingaggio…
Lucio Iaccarino